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Cetacei e mastodonti del Pliocene

Nel 1871 Vincenzo Luatti di Montepulciano vende a Giovanni Capellini, professore di geologia a Bologna, per il Regio Istituto Geologico, delle vertebre dorsali-cervicali di balena, ritrovate nelle sabbie gialle compatte del podere Ricavo (Poggio di Pasqualone) ubicato in prossimità del torrente Astrone vicino Cetona.

Le vertebre vennero descritte dal Capellini come Balaena etrusca.

Qualche anno più tardi, durante uno scasso viticolo, Spinello Ortolani, colono del podere Poltriciano, scopre casualmente delle ossa fossili all’interno di sabbie grigie-giallastre ben cementate a circa 3 km dal luogo di ritrovamento della precedente balena etrusca. In particolare il luogo di rinvenimento fu la sponda sinistra del fosso delle Gore, affluente dell’Astrone. La notizia giunge al Capellini nel gennaio 1882 dallo studente universitario Iermini. Il professore riconosce in quelle ossa il primo esemplare fossile del genere orca, vissuta nel Pliocene intorno a 3 o 4 milioni di anni fa nei dintorni del Monte Cetona, che all’epoca era una delle tante isole presenti nel grande paleotirreno. Dalla fine dell’800 l’orca di Cetona, Orcinus citoniensis, è conservata al Museo Geologico Giovanni Capellini di Bologna. Con un accurato e complesso procedimento di calco e un attento uso del colore, è stato possibile riprodurre l’originale in una modalità molto realistica. Grazie a questa riproduzione, la grande orca è tornata a Cetona ed attualmente è esposta presso il Museo Civico per la Preistoria del Monte Cetona.

Nel 1997 Alvaro Marchesini in località “Le Lame”, lungo la strada tra Sarteano e San Casciano dei Bagni (Siena) scopre resti di un grande mammifero. Tra il 1998 ed il 2000 Paolo Boscato dell’Università di Siena, a seguito di una mirata campagna di scavi nella stessa località dei precedenti rinvenimenti, porta alla luce reperti ossei per lo più frammentari, appartenenti ad un esemplare maschio adulto di Anancus arvernensis. Dallo studio dei reperti è emerso che il grande mammifero, vissuto tra la fine del Pliocene inferiore e l’inizio del Pliocene medio, aveva un’altezza di circa 3 metri. L’Anancus arvernensis è un proboscidato primitivo estinto, presente in Europa durante il Pliocene, provvisto di molari con tubercoli mammellonati (mastodonte = dal greco denti a mammella), mandibola corta, zanne superiori diritte e molto lunghe (anancus = dal greco senza curve). Il suo ambiente naturale era la foresta con fitta vegetazione dove poteva restare a lungo per nutrirsi senza compiere spostamenti che, vista la sua mole massiccia e ingombrante, non sarebbero stati per niente facili.

I resti disarticolati di femore, tibia, vertebre, costole e i denti molari sono stati recuperati ad una profondità di circa 80 cm all’interno di un’area di 60 m2 con argille grigie e sabbie giallastre. Questi terreni suggeriscono un ambiente con spiagge e lagune che lambivano il versante orientale del Monte Cetona, quando esso era un’isola che si innalzava di poche centinaia di metri sul mare. L’erosione dell’acqua e i movimenti gravitazionali spiegano la disarticolazione e la frammentazione dello scheletro.

Lo studio, curato da Paolo Boscato in collaborazione con Mauro Coltorti e Paolo Reggiani, ha contribuito alla ricostruzione geologica dell’area e alla conoscenza della distribuzione del mastodonte in Italia. È interessante ricordare che le prime ricerche scientifiche su questa specie, intorno alla metà del 1700, si devono a Giuseppe Baldassarri. Professore di Storia Naturale dell’Università di Siena ed esperto nella realizzazione di tavole naturalistiche del territorio senese, descrisse una mandibola fossile ritrovata a Montefollonico, vicino Montepulciano.

Attualmente i resti dell’Ananco di Le Lame sono esposti nella nuova sezione geologica e paleontologica del Museo Civico per la Preistoria del Monte Cetona.